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Conte
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Chiariamo subito una cosa: io amo il calcio del palleggio, quello fatto di uscite pulite, di ricerca della superiorità, di fraseggi stretti e geometrie pulite. Quel tipo di proposta mi fa impazzire, la respiro, la studio, la cerco. Ma proprio perché so quanto sia complesso quel lavoro, quanto studio e cultura tattica servano per farlo funzionare, non accetto che si sminuisca o si derida un’altra forma di calcio. Quella di Antonio Conte, per esempio.

Da anni si è creata una narrazione distorta e presuntuosa. C’è una sorta di aristocrazia pallonara che esalta sempre lo stesso modello e guarda con sufficienza tutto ciò che non rientra nei canoni del possesso insistito e della costruzione maniacale. Come se il pragmatismo fosse un difetto, come se la verticalità fosse arretratezza culturale, come se la solidità difensiva fosse una vergogna da nascondere. E invece il calcio è pluralità di idee, confronto, libertà. Conte non è il nemico. È, anzi, uno dei tecnici più complessi, moderni e maniacali che il calcio europeo abbia conosciuto.

La filosofia di calcio di Antonio Conte

Il suo calcio è fatto di lavoro, di studio, di rigore. Ogni singolo giocatore conosce il proprio compito alla perfezione. Ogni movimento è codificato, ogni uscita difensiva studiata, ogni transizione simulata in allenamento. Non è improvvisazione, non è solo corsa e carattere. È una macchina tattica che funziona se ogni ingranaggio esegue il suo compito al millimetro.

La linea difensiva lavora su compattezza, pressione e scivolamento. Sale e scappa con tempi sincronizzati, accorcia in avanti con aggressività o si compatta a protezione della porta. La gestione dell’ampiezza e delle linee di passaggio richiede lucidità e disciplina continue, che spesso non vengono riconosciute.

I quinti di centrocampo sono il cuore del sistema: devono essere terzini, esterni offensivi e centrocampisti aggiunti a seconda della fase. Vivono tre partite in una. Alternano scatti, ripiegamenti, raddoppi e transizioni. Non esiste, oggi, ruolo più logorante e più ricco di compiti tattici.

Le mezzali fanno legna e gioco. Schermano le linee di passaggio, si inseriscono, ripiegano, fanno pressione e verticalizzano. Sono il motore nascosto della squadra. Gli attaccanti, invece, orientano la pressione, lavorano sulle linee avversarie, danno profondità, fanno sportellate e creano spazi. Ogni loro movimento ha una funzione precisa.

Calcio emozionale

Questo non è calcio difensivo. È calcio organizzato. È cultura del dettaglio. È lettura degli spazi e delle emozioni. È la capacità di soffrire e di colpire al momento giusto. È dominare la partita senza dover necessariamente controllare il pallone.

E, paradossalmente, è un calcio che regala emozioni più vere, più primitive. Perché quando una squadra di Conte recupera palla e riparte a cento all’ora, quando chiude ogni spazio e difende il risultato come una trincea, ti fa vivere la partita in apnea. Ti tiene incollato. Ti restituisce quel senso di battaglia che il calcio, nella sua essenza più pura, non dovrebbe mai perdere.

Non esiste un solo modo di vivere questo gioco. E chi pretende di ridurlo a una questione estetica semplicemente non lo ha capito fino in fondo. Il bello non è universale, il risultato sì. E Conte, piaccia o no, è un artista di questo calcio. Solo che usa colori diversi. Strade diverse.


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