Crisi della Nazionale: anche Spalletti ci ha messo del suo
La crisi della Nazionale e del sistema calcio italiano sono ormai croniche, ma era lecito aspettarsi qualcosa di più da Spalletti

Tutto a un tratto il calcio è diventato uno sport semplice. Tutto a un tratto il calcio è diventato uno sport che dipende solo dalle individualità. E allora tutto diventa buono: sia che la Nazionale è scarsa perché oggi in Italia non ci sono talenti né fuoriclasse sia che la Nazionale è scarsa perché è stata falcidiata dagli infortuni (evidentemente avevamo l'infermeria piena anche a Euro 2024 e non lo sapevamo).
Può, però, un allenatore così sofisticato e, per larghi tratti della sua carriera, innovativo come Luciano Spalletti nascondersi dietro questi alibi che stanno facendo comodo, anzi comodissimo, perché si è creata attorno alla sua Italia una narrazione che è servita a mettere le mani avanti sin da subito? Basta a giustificare il fatto che durante la gestione di Spalletti abbiamo visto degli sprazzi di eccellenza solamente in due partite (con Belgio e Francia) e poi, per il resto, un quadro di assoluta depressione?
Spalletti, l'uomo giusto al posto giusto?
Estate 2023: come un fulmine a ciel sereno, Roberto Mancini annuncia il suo addio dalla Nazionale. Un vero e proprio imprevisto, agli occhi di chi non è addentro ai corridoi di via Allegri, anche perché poco tempo prima il CT era stato investito del ruolo di coordinatore delle Nazionali Under 20 e Under 21. Segno, apparentemente, del fatto che la Federazione volesse premiare le abilità di scouting del Mancio e il suo lavoro con i giovani per affidargli un progetto finalmente di respiro (un po' più) sistemico. La cui annosa assenza, peraltro, ha segnato il ritardo dell'Italia rispetto a tante competitor storicamente meno blasonate (Spagna su tutte, ma oggi possiamo dire anche Norvegia).
Poco male, però: per ovviare al doloroso strappo, Gravina pesca dal cilindro Spalletti. Proprio lui, il miglior allenatore italiano del momento, reduce da una stagione strepitosa in cui il suo Napoli era stato una squadra dominante in patria e in Europa. Proprio Spalletti che, come un moderno Cincinnato, dopo i fasti e la gloria del terzo Scudetto napoletano, aveva annunciato di voler tornare alla durezza e alla sobrietà della vita di campagna.
Ancora una volta, allora, si era tirato un sospiro di sollievo pensando che le straordinarie qualità del Commissario Tecnico individuato potessero sopperire alla crisi sistemica del nostro calcio. Come a dire che c'è un movimento calcistico nazionale che fa acqua da tutte le parti, ma che, almeno, la provvidenza ci aveva riservato ancora una volta l'uomo giusto. E invece, già dagli Europei, Spalletti è sembrato predicare per sé stesso e basta. Un alieno che, fuoriuscito dall'isola felice di Napoli, parlava tutt'altra lingua calcistica rispetto al gruppo squadra dell'Italia.
Una sensazione, quella dell'isolamento di Spalletti rispetto al contesto in cui si è trovato ad allenare, confermata ulteriormente dalle ultime parole da CT che, evitando accuratamente di entrare nel merito di cosa è andato storto nel suo biennio in azzurro, non ha fatto altro che rimproverare quei calciatori che a suo dire non hanno rispetto della Nazionale.
Il cerchio, allora, si è chiuso un po' come si era aperto: Spalletti aveva cominciato con l'assurda trovata dei "sei comandamenti" a cui avrebbero dovuto sottostare i convocati e ha concluso vestendo ancora una volta i panni del predicatore (sicuramente la sua maschera più fastidiosa). E, allora, ai calciatori scarsi e a quelli infortunati, si sono aggiunti anche quelli che non vogliono giocare per l'Italia. Ci sembrano, francamente, tre alibi di troppo. Tre alibi di troppo, almeno, per un allenatore con le capacità di Spalletti.
Un lungo passo indietro: torniamo a Mancini

Eppure, pur nel pieno della crisi più nera che abbia mai vissuto il calcio italiano, Roberto Mancini era riuscito a vincere un trofeo importante come gli Europei e a raggiungere la Final Four di Nations League. Parliamo di pochi anni fa, certamente non di ere geologiche. Ma già ci si è dimenticati quale è stata la chiave dei successi in azzurro dell'ex tecnico di Inter e Manchester City. La bravura di Mancini, infatti, è consistita nel saper recepire il meglio di ciò che allora offriva la Serie A, profondamente trasformata in quegli anni dalle consacrazioni di Maurizio Sarri a Napoli e di Roberto De Zerbi a Sassuolo.
Finalmente, con molti anni di ritardo, anche l'Italia stava vivendo la sua rivoluzione del calcio posizionale. E si era anche diffuso un nutrito gruppo di tecnici che praticavano o che comunque si ispiravano a quei principi: Montella, Sousa, Di Francesco, Giampaolo, Andreazzoli, Gattuso, Dionisi, Bucchi, Oddo, Fonseca, Liverani, Pirlo... Spalletti stesso ha praticato un calcio molto influenzato da quello di Sarri nel suo biennio interista. Questo fenomeno Mancini lo aveva compreso molto bene ed è stato bravissimo ad intercettare questa tendenza, trovando così la strada più economica, semplice e immediata, ma anche più solida, per dare un'identità complessa e definita alla sua Nazionale. Per fare in modo che l'Italia avesse un'organizzazione tattica superiore rispetto a quelle di tante altre avversarie ("come una squadra di club", si diceva). È così, ad esempio, che siamo riusciti a battere squadre ben più forti e qualitative della nostra come Belgio, Spagna e Inghilterra.
Quell'Italia, insomma, ha vissuto ben al di sopra delle proprie possibilità grazie a individualità straordinarie come Donnarumma, Bonucci, Chiellini e Chiesa. Ma quelle possibilità le ha avute perché Mancini ha capito come poteva massimizzare il buono che sapeva offrire un movimento calcistico depresso. Aveva avuto chiaro sin da subito quale era la lingua calcistica che avrebbe potuto accomunare lui e il gruppo squadra. E, non a caso, l'asse portante di quella Nazionale era formata da un terzino associativo e molto bravo a entrare dentro al campo come Spinazzola, da uno dei più grandi metodisti della sua generazione come Jorginho, da un centromediano fenomenale (anche) nel possesso stretto come Verratti e da un regista avanzato di raffinate letture e dalla grande visione di gioco come Insigne (uno dei migliori della sua generazione).
Ma gli Europei del 2021 sono stati il canto del cigno di quel gruppo squadra e delle due generazioni che lo componevano. È stata l'ultima occasione utile per vincere un trofeo importante sia per gli azzurri più anziani che per quelli che erano all'apice della loro maturità calcistica. Dopo quell'estate, infatti, hanno iniziato a scricchiolare le fondamenta che stavano alla base del progetto tecnico di Mancini. Con il diffondersi del calcio posizionale in Italia, infatti, ha avuto la consacrazione definitiva un veterano del nostro campionato, un tecnico che è stato in grado di sviluppare presto gli antidoti al gioco di posizione capendo quali erano le falle di un sistema che si basa sulla volontà di posizionare i propri calciatori e di disordinare quelli avversari prendendo a riferimento le linee di pressing di questi ultimi.
Parliamo, naturalmente, di Gian Piero Gasperini e del suo sistema di marcature aggressive uomo su uomo a tutto campo. È, questo, un tipo di calcio che rappresenta una vera e propria kryptonite per il gioco di posizione perché ne disarticola le linee con cui tradizionalmente divide il campo e fa venire meno così i suoi punti di riferimento, agendo proprio sulle sue debolezze (transizioni negative su tutte). Data l'efficacia di questa controffensiva, dunque, hanno iniziato a diffondersi in A allenatori che si pongono nella scia di Gasperini, seguendone pedissequamente le orme o evolvendo ulteriormente il suo calcio: Juric, Tudor, Bocchetti, Palladino... a cui, peraltro, va aggiunto un folto corteo di comparse. Mentre tanti altri tecnici hanno fatto proprio il sistema delle marcature a uomo. Praticare questo tipo di calcio è, infatti, la strada più immediata per essere competitivi in A per club che non hanno le conoscenze o le risorse per giocare un calcio qualitativo. È, se vogliamo, un'alternativa moderna ed economica ai tradizionali sistemi di gioco reattivi "alla italiana".
L'inghippo di Spalletti

È da qui, riducendo la questione all'osso, che si originano la crisi del progetto di Mancini e la mancata qualificazione ai Mondiali di Qatar. Come poteva andare avanti l'ex CT della Nazionale con difensori che, ormai, non sono abili nel mantenere compatta la linea e che hanno come riferimento solo l'uomo o con attaccanti che non riescono più a essere associativi? È crollato, infatti, tutto l'edificio tattico di Mancini. Poi è sbucata l'idea di affidargli la supervisione delle nazionali minori, un progetto che sembrava potesse far intravedere dei primi, promettenti, risultati. Ma che è terminato prima del tempo.
È in questo contesto, dunque, che si muove Spalletti. Che poteva anche essere l'uomo giusto: lui, infatti, aveva capito i termini della rivoluzione tattica che ha investito la Serie A con Gasperini e i suoi discepoli. E, grazie alla sua grande capacità di aggiornamento, a Napoli ha fatto perno proprio sulla chiave da lui trovata per dominare il campionato ("Gli schemi non ci sono più nel calcio. Gli spazi non sono più tra le linee, ma tra gli uomini, la bravura sta a trovarli quegli spazi": ricordate?). E, non a caso, tutti e quattro i match contro Atalanta e Torino sono stati incontri decisivi per la vittoria dello Scudetto 2022-23. Sia in termini di classifica che di messaggio inviato alle avversarie.
Ma dove sta, allora, l'inghippo? Cos'è che è andato storto nell'esperienza di Spalletti in Nazionale? Com'è che un tecnico così in gamba è risultato nient'altro che un pesce fuor d'acqua nella sua esperienza in azzurro? Spalletti ha pensato di utilizzare anche con l'Italia un "calcio relazionale". Un'espressione – entrata in voga dopo i successi di Fernando Diniz alla Fluminense – a cui peraltro Spalletti stesso ha fatto ricorso tante volte per spiegare come è evoluto il suo calcio e per definire l'identità che avrebbe dovuto assumere la sua Nazionale (un calcio relazionale è un calcio che, in estrema sintesi, basa i suoi principi sul creare superiorità numerica nella zona di circolazione della palla facendo leva non su posizioni fisse e precostituite, ma su associazioni spontanee tra calciatori, in particolare tra quelli maggiormente tecnici, prediligendo dunque le capacità di interpretazione del singolo e movimenti fluidi in campo).
È, questo, un tipo di calcio che Spalletti ha potuto applicare a Napoli perché aveva a disposizione calciatori di una qualità e di un'intelligenza calcistica significativamente superiori rispetto alla media dei calciatori che poteva convocare in Nazionale (fatte salve sei-sette eccezioni). E allora, invece che lavorare per sviluppare terreno fertile per le sue idee, Spalletti è sceso a compromessi, convocando addirittura giocatori molto "binari", per certi versi monotematici, che col calcio relazionale non c'entrano niente: Scalvini, Gatti, Mancini, Ruggeri, Bellanova, Zappacosta, Frattesi... Eppure il tecnico di Certaldo aveva tante possibilità: mettere, ad esempio, più al centro del progetto un calciatore come Cambiaso o affidare la titolarità fissa dell'attacco a Raspadori – l'unica punta italiana, oggi, dotata di una grandissima intelligenza degli spazi –, e anche stabilire un collegamento con l'Under 21 di Carmine Nunziata.
Anche su quest'ultimo punto, infatti, ci pare che Spalletti abbia peccato un po' di presunzione: ha parlato tanto del calcio relazionale come del suo calcio, ma non ha visto che in Nazionale c'era chi lo praticava da un po'. Ovvero proprio Nunziata, che già con l'Under 20 ai Mondiali di Argentina 2023 aveva raggiunto risultati eccellenti. Poteva crearsi, accanto ai senior più qualitativi, un nucleo di calciatori da accompagnare nella crescita. Pensiamo a Casadei, Pafundi, Francesco Pio e Sebastiano Esposito (quest'ultimo uno dei pochissimi attaccanti italiani che oggi ha ancora la tanto invocata capacità di usare il dribbling).
È una strada che avrebbe potuto di per sé garantire maggior successo? Non possiamo saperlo, ma sicuramente avrebbe avuto un senso. Sicuramente avrebbe tracciato un percorso di crescita tattica e di costruzione di un'identità ben preciso. Invece, in questo, Spalletti è stato molto poco manager, ha ragionato molto poco da vertice di un movimento calcistico nazionale. È in questo aspetto che, forse più di tutti, l'ex allenatore di Roma e Napoli si è mostrato in tutto il suo drammatico isolamento. E così Spalletti si è costretto da solo a prendere quello che il campionato poteva offrire di volta in volta, arrangiandosi alla buona in base ai momenti di forma di questo o di quel giocatore.
Valga, per rendere chiaro il ragionamento che stiamo facendo, l'esempio della scelta della punta: prima si è deciso di affidare le sorti dell'Italia a Scamacca, decisivo per la vittoria dell'Europa League dell'Atalanta. Poi si è passati a Retegui, sostituto in nerazzurro dell'ex nove del Sassuolo, ma un calciatore dalle caratteristiche molto diverse, per poi arrivare a Kean, esploso definitivamente a Firenze, ma con caratteristiche ancora una volta assai differenti rispetto a quelle di Scamacca e Retegui. Tutto questo nel giro di soli due anni. Insomma, le idee sono state tante, ma anche parecchio confuse. È proprio il progetto di Spalletti a essere nato su basi tattiche fragili, quasi improvvisate.
Al termine di questo lungo discorso e delle altrettanto lunghe digressioni, però, una domanda viene da chiedersela: dove finiscono le responsabilità dell'ex CT e dove, invece, iniziano quelle della FIGC? Non ci piace impelagarci in valutazioni poco fondate sulle ripartizioni in percentuale delle colpe. Sarebbe un esercizio sciocco. E però, se dobbiamo dire che la prima causa è la guida di una Federazione che, ormai, dopo due Mondiali saltati e un Europeo a rischio, si è mostrata in tutta la sua inadeguatezza, è vero anche che Spalletti ci ha messo comunque del suo (è ancora esausto dopo il biennio sfiancante di Napoli?). Delle responsabilità di Gravina e della scelta di Gattuso, invece, ne parleremo a breve.