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Antonio Conte durante i festeggiamenti
Antonio Conte durante i festeggiamenti

Antonio Conte, dopo la vittoria dello scudetto, si sta godendo le meritate vacanze sempre con un occhio al mercato azzurro. Il tecnico del Napoli ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera.

Conte e De Laurentiis
Conte e De Laurentiis

L’intervista di Antonio Conte al Corriere della Sera

Perché ha deciso di mettersi a scrivere un libro su di sé, sull'allenatore che è diventato quel ragazzo di Lecce che a 21 anni si e trovato a giocare alla Juve con campioni, da Baggio a...Schillaci, ai quali dava del "voi".

«Non volevo fosse una nuova autobiografia, dilungandomi sempre sulle cose sportive, quella partita piuttosto che l'altra, la vittoria o la sconfitta. Ho pensato che la gente sapesse già tutto. Ho voluto raccontare invece della mia essenza, del mio metodo di gestione di un gruppo, di come sono realmente. Mi sono preso un anno sabbatico dopo il Tottenham, c'erano spazio e tempo per scrivere. Con parole mie e aiutato da Marco Berruto, un bravissimo compagno in questo viaggio. Il libro era pronto a marzo ma c'era in gioco lo scudetto e abbiamo preferito aspettare».

Lei è davvero un sergente di ferro?

«Ci sono momenti in cui devi essere più rigido, più duro, perché quello necessita la situazione, poi ci sono anche quelli in cui diventi un fratello maggiore, un padre.

Per il ruolo di capo, di un leader, sarebbe fin troppo facile imporre la propria idea, dare ordini e basta. Il problema è riuscire a trovare il modo affinché capiscano l'importanza e ti seguano. Le cose devi farle attraverso l'esempio. Si accelera e si decelera, il punto di equilibrio è la chiave di tutto.

Vale per il calciatore, il terapista, il magazziniere, il giardiniere. In un club, dal primo all'ultimo, tutti devono far parte di un meccanismo che lavora per ricercare il miglioramento continuo. L'esempio del fare è alla base di tutto. È inevitabile che quando le cose non vanno nella giusta direzione mi arrabbio e anche tanto».

Parla di «incazzature artificiali», a cosa si riferisce.

«Alle uniche volte in cui indosso una maschera. Mi è capitato alla Juventus: stavamo vincendo 2-o, ma mi accorgo che qualcosa non va. Allora durante l'intervallo entro nello spogliatoio e lancio una bottiglia di plastica contro la lavagna e inizio a urlare.

Molti mi hanno preso per pazzo ma quel risultato sarebbe potuto cambiare se non avessimo continuato ad avere la stessa fame e concentrazione. La bravura sta nel percepire se ci sono dei rischi di questo genere e quindi intervenire».

Complimenti o incazzature, lei studia cosa dire oppure va sempre di pancia?

«È impossibile non essere me stesso, non ho filtri. Fare cose studiate prima in maniera artificiosa non mi appartiene. Non ho mai scritto o preparato un discorso da tenere ai ragazzi il giorno prima. Ho dei campioni davanti, capirebbero che non arriva dal cuore».

Ha citato la Juventus, la sua storia da calciatoree da allenatore. Ma davvero non ha avuto contatti dopo lo scudetto col Napoli?

«Non ho avuto contatti con nessuno perché a chiunque abbia provato a cercarmi con terze persone ho sempre risposto che avrei parlato con il club a fine stagione come si fa sempre. E solo se l'incontro non avesse soddisfatto le parti avrei aperto a un'altra situazione, avendo comunque un contratto con il Napoli per altri due anni».

(La figlia Vittoria lo ascolta e, forse, parla un po' a lei e un po' a noi)

«Ho avuto un'educazione molto dura, noi siamo quello che riceviamo dalla nostra famiglia. In questo tempo vengono sempre di più a mancare le famiglie. Educazione, spirito di sacrificio, valori che si stanno perdendo. Vittoria sa chi siamo, come ci comportiamo, ha i nostri stessi principi. Siamo una famiglia senza dubbio agiata, il lavoro ci ha permesso una condizione da benestanti ma conosciamo il valore dei soldi. Le cose si ottengono con la fatica, l'impegno. Il sacrificio, le rinunce».

La più grande rinuncia?

«Il lavoro mi porta spesso lontano dalla famiglia. Non aver visto tutti i momenti di crescita di mia figlia è stata una grande privazione. Vederla di colpo cresciuta ti rende amaramente consapevole che hai perso qualche passaggio. Per ogni cosa c'è un prezzo da pagare. Ecco, ho scritto questo libro anche per dare ancora più dignità al senso del lavoro. La fatica è una medicina pure contro lo stress mentale».

A proposito di stress, come andò con quel retropassaggio sbagliato a Montecarlo?

«Andò che alla prima partita da titolare con la Juve mi ritrovai sulla prima pagina di un giornale nazionale con il titolo Nel Principato sbaglia il Conte. Era la mia prind verd partila e dvevo commesso un gravissimo errore. Iniziai a dubitare sulla mia capacità di poter giocare a questo li-vello. Pensai anche "ma chi me lo ha fatto fare". A Lecce ero con i miei amici, la mia famiglia, andavo al mare fino a novembre.

A Torino ero da solo, avevo 21 anni. Ero con i miei idoli, Schillaci, Tacconi, Baggio, ma all'inizio mi sentivo fuori posto. Se qualcuno mi avesse detto allora quello che avrei vinto in 13 anni avrei pensato: "Sta fuori di testa". Invece proprio quel retropassaggio così mortificante mi spinse a reagire. Trapattoni, uno tra i più bravi allenatori che ho avuto, mi vide giù e disse: "Non stai mica pensando ancora a ieri". Qualcosa scattò in me. Non volevo tornare a Lecce da sconfitto. Ecco, io penso che l'allenatore, così come fece con me Trapattoni, debba saper arrivare al cuore e alla testa dei calciatori. Le gambe forse sono l’ultima cosa».

Lo pensa davvero?

«Durante l'allenamento devi ripetere, ripetere e ancora ripetere i gesti fino a farli apparire semplici a chi li guarda. Solo tu sai quanta fatica ci è voluta. L'allenatore non deve essere duro, ma giusto. Meglio una brutta verità che una bella bugia. Mai illudere un calciatore, semplice dire: "La prossima partita la giochi tu" anche se sai che non è vero. Dire la verità significa rispetto».

 

Tutti i giocatori che ha allenato le riconoscono un grande carisma, un modo unico di entrare nella testa, ma non ce n'è uno che non dica: sì ma i suoi allenamenti sono durissimi. Quando qualcuno si lamenta cosa fa?

«Una volta il capitano del Chelsea venne a chiedere di rallentare il ritmo, di fare meno sedute video. Io acconsentii soprattutto rispettando la loro cultura, il loro modo differente di vivere il calcio. Quando sei in un Paese diverso dal tuo devi essere attento a non stravolgere troppo. Ebbene, perdemmo due partite di fila e ho rischiato di essere esonerato. Da allora penso che se devo "morire" in qualche scelta e situazione da affrontare, lo devo fare a modo mio e non per mano di altri. Questo è il metodo, il trust in process come dicono gli inglesi. Tenere fermo il punto delle scelte. La ricerca del consenso a tutti i costi è un'autocondanna. E se penso alla durezza degli allenamenti, sorrido. Zidane e Del Piero si allenavano in modo molto più duro. Oggi si fa un terzo di quello che facevamo noi.

Il lavoro va naturalmente legato ai risultati, mi e capitato di allenare squadre dove dopo un po' i calciatori stessi cercavano situazioni di fatica. Questo vuol dire per me aver ottenuto il risultato».

A Napoli è successo?

«I ragazzi sono stati sempre disponibili, mi hanno seguito fin dal primo giorno, e alla fine sono riusciti a mentalizzare il concetto di fatica, di sacrificio. Certo, a questa squadra all'inizio mancava quello che io chiamo il coltello nel calzino. Serve cattiveria sportiva, si va in guerra senza scrupoli. Poi lo hanno trovato, altrimenti non avremmo vinto il campionato. Quando alla Juve arrivò Carlos Tevez sapevamo tutti che era un campione straordinario, ma arrivò da noi con una fama di ragazzo non proprio semplice da gestire. Ebbe un inizio un po' complicato di adattamento, ma poi a un certo punto diventò il primo in tutto nel dare l'esempio. Con ciascuno bisogna trovare la chiave di accesso. Mi costa a volte anche incazzature forti ma va bene così. Guardo all'aspetto umano e all'obiettivo».

Si è mai pentito di aver esagerato con qualcuno, di essere stato eccessivamente duro?

«Il confronto duro se lo hai col singolo non è mai semplice. Non ho mai goduto di un rimprovero forte, se l'ho fatto è perché lo ritenevo necessario, rammaricandomi del fatto di non esser riuscito ad arrivare in un altro modo. Ci sono però delle situazioni in cui devono percepire che sono molto arrabbiato. L'ultima in questa stagione è successa con i ragazzi dopo la sconfitta a Como. Eravamo 1-1 all'intervallo, hanno vinto loro nel secondo tempo perché hanno avuto più fame. Beh, lì sono stato durissimo. Si può perdere ma non perché gli altri hanno più cattiveria, più ambizione».

Qual è stata la partita in cui ha avuto la sensazione che poteva vincere lo scudetto?

«Quella con l'Inter, recuperare lo svantaggio, rischiare di vincere. Dissi pubblicamente per la prima volta: "Se vogliamo possiamo“. Era un messaggio per i miei ragazzi. Ci credevo, dovevano farlo anche loro. Poi nel calcio c'è sempre l'imponderabile. Il pareggio col Genoa ha rischiato seriamente di compromettere lo scudetto:il difensore centrale intercetta un passaggio filtrante nella sua metà campo, passa il pallone e inizia a girovagare nella nostra area, finisce al terzino sinistro che riesce a crossare nonostante io urli a Politano di impedire il cross, e il difensore Vásquez fa gol nonostante fosse in mezzo a tre nostri giocatori».

Prima ha detto che le gambe sono l'ultima cosa...

«Il calcio è gesti e situazioni memorizzate.Le prepari e le martelli migliaia di volte.Voglio che il mio giocatore giochi la partita prima ancora di giocarla veramente, riconosca in anticipo le situazioni. Perché ci sono cose inallenabili, quelle che accadono in campo. Ma se fai e rifai mille volte un gesto, sarai pronto. Questo metodo mi auguro possa essere di ispirazione in altri ambiti lavorativi, anche per implementare la propria leadership».

Che di questi tempi è merce scarsa.

«Essere esemplari, valorizzare le competenze specifiche con la volontà di spostare avanti i limiti, soprattutto quelli considerati insuperabili. Ma non esistono scorciatoie».

L'allenatore oggi è un manager. Onori e oneri.

«L'allenatore è il ruolo peggiore, si prende carico dei problemi di tutti. Gli viene consegnato un patrimonio dalla società: sta alla sua capacita farlo crescere, depauperarlo o lasciarlo così com'è. Non è semplice, non consiglierei alle persone a cui voglio bene di fare questo mestiere, la pressione se non sei forte ti consuma».

È un uomo solo?

«Odio stare solo ma so che le decisioni si prendono così. Lo staff però è importante, mi piace avere collaboratori che non siano compiacenti. Il confronto dev'essere leale, cosi può essere costruttivo. Ascolto tutti, poi tocca a me decidere».

Come la decisione di restare a Napoli. O attribuisce a sua moglie Betta qualche merito?

«La famiglia è un punto di riferimento ma certe scelte le faccio io. Mia moglie, mia figlia stanno molto bene a Napoli ed è un dato di fatto. Ma poi sono io che devo allenare tutti i giorni una squadra, loro non c'entrano nulla».

A proposito com'è andata con De Laurentiis?

«Nel nostro incontro ci siamo chiariti, parlare è stato fondamentale. Lui ha capito gli errori o comunque le situazioni che devono essere migliorate. Ho un contratto e il chiarimento è stato il punto chiave. Il resto sono state voci che hanno fatto male, non hanno tenuto conto di come sono fatto io».

Lei ha scritto: «Chi si arrende in allenamento, si arrende in partita. Non odiare l'avversario ma la sconfitta. Ascoltare le persone ma non all'infinito. Ripetere, ripetere e ancora ripetere.

Ciò che conta sono quelli che restano quando è difficile restare. L'allenamento comincia da come ti allacci le scarpette. In successione:esplora, studia, prova, sbaglia, correggi e naviga. Scorci di parole, utili per allenare e vincere cinque scudetti, centinaia di partite.Portare il Napoli allo scudetto numero quattro.Gestire campioni. Ma anche per molto, molto altro». Conte, le piace il suo libro?

«Sì, mi rispecchia completamente. Un libro serio, autentico. Con parole mie senza citazioni. C'è il mio vissuto».


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