Il lamento come arte del calcio
Il mondo del calcio dovrebbe forse prendere spunto dai genovesi, maestri del mugugno, e trasformare la lamentela in un diritto contrattuale. Gli allenatori potrebbero accettare di guadagnare un po’ meno pur di poter continuare a sfogarsi liberamente su arbitri, calendari, mercato e destino. In fondo lo fanno già, e gratis. Ogni tecnico diventa interprete di un piccolo dramma personale, recitato a beneficio di tifosi e dirigenti, un rito catartico che accompagna la vita delle panchine italiane. Stilare una classifica dei più lamentosi è impresa ardua: ma tra tutti, alcuni sono diventati veri maestri.
Antonio Conte e il perfezionismo che logora
Antonio Conte, si sa, non riesce a vivere nel grigio. Le sue squadre devono sempre correre, dominare, essere perfette. Di recente è finito al centro dell’ironia per essersi lamentato di un mercato “troppo abbondante”, dopo anni passati a chiedere rinforzi e qualità. Ma, in fondo, le sue esternazioni fanno parte del pacchetto. Conte è un tecnico che pretende il massimo da sé e dagli altri: quando non lo ottiene, esplode. “Io non faccio miracoli”, ripete spesso, ma dai suoi calciatori li pretende eccome. Questo stile totalizzante consuma in fretta: i suoi cicli, vissuti con intensità maniacale, finiscono per bruciare chiunque gli stia accanto.
José Mourinho, il drammaturgo del pallone
Mourinho non si lamenta, mette in scena. Ogni parola è un atto teatrale, ogni conferenza una rappresentazione. Gli antagonisti cambiano — arbitri, rivali, federazioni — ma il copione resta lo stesso: creare tensione, spostare la pressione dai giocatori a se stesso, rimanere vivo nel conflitto. Quando Mou tace, manca il rumore. Dietro la teatralità c’è sempre una strategia: tenere alta la concentrazione e proteggere il gruppo. E quasi sempre, funziona.
Sarri e la malinconia del calcio perduto
Maurizio Sarri si lamenta come un pittore che non trova la luce giusta. Parla di calendari disumani, di allenamenti impossibili, di un calcio che non ha più tempo per pensare. Il suo non è vittimismo, ma difesa di un’idea quasi romantica: quella del “bel gioco” costruito con lavoro, studio e pazienza. Ogni suo sfogo è una piccola dichiarazione d’amore per un calcio che non c’è più.
Spalletti e Allegri, i due opposti
Luciano Spalletti non si lamenta: costruisce teoremi. Usa metafore, parabole, giri di parole che spesso contengono tre significati diversi. Dietro la complessità linguistica, c’è una passione ossessiva per la bellezza del gioco e per il controllo di ogni dettaglio. Max Allegri, invece, fa il contrario: minimizza, ironizza, e con una battuta spiazza tutti. Le sue non sono lamentele, ma stoccate sottili a chi prende troppo sul serio la teoria del calcio.
Lamento come dichiarazione d’amore
In fondo, chi si lamenta lo fa perché ama. Gli allenatori che brontolano, urlano o si disperano lo fanno per difendere la loro idea di calcio. Sono artisti che non sopportano la mediocrità, maniaci del controllo e della perfezione. Senza di loro, senza le loro sfuriate e i loro tormenti, il calcio sarebbe più silenzioso. E probabilmente anche molto più noioso.
Fonte: Gazzetta






