Luciano Spalletti sarà il prossimo allenatore della Juventus. La notizia, di per sé, non fa e non deve fare scandalo: è un professionista, e come tale ha il diritto di allenare chi vuole. Ma il punto non è questo.
Il punto è come Spalletti ha gestito, e manipolato, la sua uscita da Napoli. Perché dietro la maschera dell’uomo sensibile, del tecnico che “non ce la faceva più” e che “non voleva tradire la piazza”, c’è stato un preciso lavoro di comunicazione: costruire un racconto emotivo, da eroe malinconico, che spostasse ogni responsabilità su altri.
Missione compiuta, anzi perfettamente riuscita.
Luciano Spalletti come Maurizio Sarri
Non è la prima volta che accade. Prima di lui, Maurizio Sarri aveva interpretato alla perfezione il ruolo di capopopolo anti-sistema, la voce del popolo azzurro contro i “poteri forti”. Poi, alla prima occasione, è andato a cena con quei poteri forti, accettando l’offerta proprio della Juventus.
Spalletti non ha impiegato nemmeno tanto: un’annata di “pausa sabbatica” e un Europeo opaco: via, di nuovo in pista. Ma con la maglia che, fino a pochi mesi fa, rappresentava il nemico sportivo.
E allora la domanda sorge spontanea: perché dire certe cose se poi sai già che non le manterrai? A che serve costruire una narrazione romantica, se poi la smonti alla prima chiamata conveniente? Certo, il calcio è un mestiere, ma nessuno obbliga a recitare la parte del fedele devoto per poi fare il voltafaccia.
Il sentimentalismo spallettiano è stato un capolavoro di storytelling
“Non voglio mettermi una tuta diversa da quella del Napoli”, diceva. “Non potrei mai affrontare questa squadra da avversario”. E intanto, nel sottotesto, preparava la fuga insieme a Cristiano Giuntoli. Peccato che, invero, probabilmente non aveva fatto i conti con De Laurentiis. Perché la verità, probabilmente, è molto più semplice e molto meno poetica: Spalletti non se la sentiva di restare dopo lo Scudetto. Non voleva rischiare di non ripetersi. Non voleva deludere un popolo che lo aveva appena elevato a santo laico. O, forse, voleva semplicemente lasciare da vincente.
Così, mentre si cuciva addosso l’aura dell’uomo stanco ma sincero, Spalletti ha trovato anche il perfetto capro espiatorio: Aurelio De Laurentiis. Ogni intervista successiva, ogni apparizione pubblica, è stata un’occasione per ricordare quanto fosse difficile lavorare con il presidente, quanto “non ci fosse più serenità”, quanto “avessero vedute diverse”.

Spalletti povera vittima, De Laurentiis padre padrone
Il messaggio è passato: De Laurentiis, il solito despota. Spalletti, la vittima illuminata. E Napoli, prevedibilmente, ha reagito come sempre: si è schierata dalla parte del più romantico, del più empatico, del più abile a maneggiare parole e sentimenti. E Spalletti, da grande comunicatore, ha alimentato questa narrativa fino all’ultimo, con dichiarazioni d’amore continue, tatuaggi esibiti e lacrime di circostanza. Tutto perfetto. Tutto calcolato. Dal “non posso affrontare il Napoli” al “buongiorno, sono il nuovo allenatore della Juve”.
E ora, eccoci qui signor giudice. Con qualche anno di ritardo rispetto a quello che, magari, aveva pianificato. Lo stesso uomo che giurava di non potersi immaginare con una tuta diversa da quella azzurra, sta per indossare quella bianconera.
Non c’è alcuna necessità di parlare di tradimento: è una scelta professionale e va rispettata. Un epilogo inevitabile per chi fa del sentimentalismo una strategia. Spalletti non è il cattivo della storia, ma è certamente l’autore del copione. Ha scritto, diretto e interpretato la sua versione dei fatti, coprendo con un velo di poesia chissà quale verità.
Alla fine, ha ragione Antonio Conte
In tutto questo, paradossalmente, l’unico a uscirne bene è Antonio Conte. Uno che, piaccia o no, non ha mai giocato a fare l’innamorato. Non ha promesso eternità, non ha baciato maglie, non ha pronunciato giuramenti. È arrivato a Napoli da professionista, e come tale si sta comportando: lavora, vince, e quando sarà il momento andrà via. Senza ruffianerie, senza teatrini, senza bisogno di ricamarsi addosso un’aura mistica.
E forse è proprio questa la differenza tra i due: Conte verrà ricordato con rispetto e affetto, pur senza aver mai detto “Napoli nel cuore”. Spalletti, invece, rischia di essere ricordato come il tecnico che a Napoli ha vinto… e poi ha smentito sé stesso.
A volte, la strategia migliore non è dire di amare. È semplicemente non mentire.






