Un peccato, veramente un peccato. Il caso delle intercettazioni sul caso della plusvalenza legata all’acquisto di Victor Osimhen è diventato l’ennesimo pretesto per certificare la crisi del giornalismo sportivo italiano. L’ennesima occasione mancata per spiegare, chiarire, educare. Invece, ancora una volta, si è preferito alzare il volume della polemica, sacrificando la verità sull’altare del sensazionalismo.
La corsa al click, al titolo facile, al tweet virale ha definitivamente soppiantato la volontà di informare. E così, tra un talk show e un titolo urlato, la deontologia professionale è finita sotto terra, insieme a ciò che un tempo chiamavamo informazione.
La domanda (mal posta): “Perché la Juve sì e il Napoli no?”
Il dibattito, ancora una volta, si è arenato su un confronto tanto sterile quanto inutile: “Perché la Juventus è stata punita e il Napoli no?”. Una domanda che in realtà avrebbe una risposta semplicissima, se solo qualcuno avesse avuto la pazienza – o il coraggio – di spiegarla ai lettori.
La Juventus, come riportato nella sentenza della Procura Federale, aveva trasformato il meccanismo delle plusvalenze in un sistema strutturale, un vero e proprio metodo di bilancio illecito e reiterato. Il Napoli, invece, anche qualora l’ipotesi delle “plusvalenze gonfiate” fosse confermata, si troverebbe in un ambito totalmente diverso: un illecito solo virtuale, mai sanzionabile in quanto non esiste un parametro oggettivo per definire il “valore reale” di un calciatore.
Non è un’opinione: è un fatto. Tutte le società accusate negli anni di operazioni simili – e parliamo di decine di club-– sono sempre state prosciolte. Tutte, tranne la Juventus, punita non per un episodio isolato, ma per aver elevato la pratica a sistema fraudolento.
Eppure, anziché chiarire questa distinzione elementare, gran parte della stampa ha preferito alimentare la caciara. È più facile buttare benzina sul fuoco che spiegare con onestà perché, giuridicamente e sportivamente, i due casi non siano comparabili.
Il caso Osimhen e il giornalismo che non spiega più
Ciò che resta, al termine di questa ennesima tempesta mediatica, è la consapevolezza che il giornalismo sportivo italiano abbia ormai smarrito il suo compito primario: fare informazione.
Oggi l’obiettivo non è più raccontare la realtà, ma generare reazioni. Non è più dare una notizia, ma venderla al miglior pubblico offerente. I titoli devono indignare, i tweet devono dividere, i programmi devono gridare. La chiarezza non fa audience, la complessità non porta like. E così, ancora una volta, si è preferito far rumore piuttosto che fare luce.
Un peccato, davvero. Perché quella che avrebbe potuto essere un’occasione per spiegare la differenza tra giustizia sportiva e farsa mediatica, è diventata l’ennesima pagina nera di un giornalismo che ha smesso di essere un servizio pubblico. Oggi, purtroppo, è solo uno spettacolo di rumore.






