La sconfitta contro il Torino di sabato pomeriggio ha aperto un grande dibattito. Forse perché, per la prima volta in due anni, al Napoli è sembrato andar bene un risultato negativo. O meglio, perché gli sguardi di contorno, il coro greco di ogni partita, raccontano sinistramente una certa rassegnazione.
In questi giorni, i commenti sul Napoli fioccano. C’è chi ha definito il suo allenatore come “impiegato del catasto”, pronto a timbrare un cartellino senza più il mordente da Generale di divisione. Tradotto dal neo-con, una squadra da compitino, caruccia e ben educata, ma non destinata ad imprimere la sua impronta sulla stagione.
Ora, sgombrando il campo visivo dalle fosche tinte à la Camus, occorre riflettere su quelli che stanno affiorando come limiti e, forse, problemi, di questa squadra. Fuori, però, da ogni considerazione squisitamente tattica che, ad oggi, lascerei agli esperti perché, all’occhio non professionale del tifoso, mancherebbero tanti elementi celati nelle settimane di lavoro a Castel Volturno.
Lo scudetto arrivato al primo tentativo può essere paradossalmente un elemento di disturbo rispetto alla linearità, quasi rigorosa, dei progetti con Conte in panchina?
Partiamo dall’analisi dei precedenti: il Napoli del post Scudetto è stato trascinato via dalla supponenza, prima ancora che dall’insipienza della propria guida tecnica. Un trattato, la stagione del 23-24, di come non si gestiscano le vittorie ma, soprattutto, di quanto facilmente la consapevolezza di sé, se non allenata, possa tramutarsi in presunzione.
Uno zoccolo duro di quella squadra c’è ancora. E la ferita del post scudetto, vero collante emotivo – tra l’altro – tra le due esperienze iridate, sono certo che resta ancora impresso nella mente dei Rrahmani, dei Politano, degli Zambo-Anguissa.
E Conte? I suoi secondi anni sono stati particolari: alla Juventus fu dominante, ma con il non trascurabile accidente della squalifica per la vicenda calcioscommesse. Sulla panchina, per quattro mesi, ci andarono Massimo Carrera e Angelo Alessio; insomma, la squadra giocava, forse ancor di più del primo anno, con lo stimolo di dimostrare una vicinanza al suo allenatore, allontanato dalla federazione (era l’anno del celebre Agghiacciande).
Al Chelsea, invece, dopo la Premier League al primo tentativo, fa una stagione di alti e bassi, portando a casa un titolo (FA Cup), ma anche molti strascichi nello spogliatoio e con la società, con la quale si lascia malissimo.
All’Inter, infine, va benino il primo anno e stravince al secondo, interrompendo però il rapporto anzitempo.
In generale molti giocatori parlano di Conte come il migliore allenatore in carriera ma che, alla lunga, logora molto la tenuta mentale della squadra. Un gigante, potremmo dire, nel distillare tutto in una finestra temporale ridotta. Almeno fino ad oggi.
Tornando a noi, vi espongo la mia tesi: il titolo vinto è irrimediabilmente un limite alla ferocia agonistica.
Se non trova uno storytelling anche artificioso, alla squadra rischia di mancare quella sostanza che, nelle squadre di Conte, vale di più del centravanti o del terzino: la voglia di andarsi a giocare la vita contro ogni avversario.
Una tesi è una tesi, non è dimostrabile a priori: vediamo col tempo.
Possibile che questa sensazione sia annacquata da due fattori: il “calcolo” sul filotto, che ci dice che tra tutte queste era la partita dove poter rischiare qualcosina in termini di undici titolare. Il che alimenta il dubbio non solo sull’abilità dei cosiddetti turnover, ma anche sulla capacità di gestire il doppio impegno, vero punto dolente della carriera di Conte.
E, forse, alla base, una considerazione squisitamente tattica – ci son cascato anch’io.
Complici le continue assenze, non sembra mai trovarsi una quadra.
Il Napoli di Firenze, che è una squadra molto più dinamica e tambureggiante, sembra lontana anni luce da quella di sabato sera. Occorre capire ora quale sia la versione per il futuro; perché, un Napoli annacquato di lentezza mentale rischia di fare la fine del suo centravanti, Lucca, per il quale vale l’adagio “aiutati che Dio t’aiuta”.
Pochi palloni giocabili, è vero; ma una disabitudine al calcio di qualità, alla giocata intelligente, al movimento da centravanti di manovra o allo scatto in profondità.
Grande, grosso e costoso, Lucca sembra il Napoli dell’Olimpico Grande Torino; più goffo che quadrato, e punito forse oltre i demeriti in una partita che evidenzia i limiti suoi e degli azzurri.
S’adda faticà. E pure tanto. Forse qualcuno lo aveva dimenticato.






