Cosa frulla nella testa delle persone? Per quanto si possa tentare l’esercizio della psicanalisi, la risposta a questa domanda sarà sempre e per sempre tendenziale. Sempre approssimata. Un mix tra categorie probabilistiche, frutto dei vissuti di ciascuno, e di supposizioni incentrate sostanzialmente su una ricostruzione per immagini, figure retoriche, desunte dal dialogo, dagli sguardi o dalle espressioni.
Cosa frulla oggi nella testa di Antonio Conte non lo capiremo mai. Decostruendo, come in Harry a Pezzi, potremmo rimestare in un racconto in cui l’inquietudine esistenziale si nasconde, celandosi, ad esempio, nella folla festante della primavera scorsa.
Nelle rassicurazioni, carte alla mano, di un datore di lavoro mai così prono alle volontà del suo tecnico. Nel ruolo, mai messo in discussione, di guida suprema di una squadra che ne necessita più di ogni altra cosa ma che forse inizia a dare per scontato il livello raggiunto lo scorso anno.
È come se la parte razionale di Antonio Conte lo abbia portato a rimanere a Napoli e ad imbarcarsi ancora dopo aver portato in porto il titolo al primo tentativo.
E, d’altra parte, ad accettare un protagonismo assoluto nelle scelte di programmazione, nella campagna acquisti, finanche sull’irrigazione dei campi del centro sportivo o sulle domande da accettare in conferenza stampa.
Mentre, nervi e cuore, anzi l’istinto suggeriva di separarsi tutto d’un fiato, senza soluzione di continuità dai campi elisi di maggio scorso.
Inquietudini, se vogliamo, irrazionali; chiunque, stavolta sul serio, sarebbe venuto a Napoli a raccogliere la sua eredità e ad allenare una squadra con un mercato in entrata da oltre 100 milioni. Tutti avrebbero fatto carte false per allenare Kevin De Bruyne, una leggenda del calcio mondiale desiderosa di confrontarsi con una nuova sfida.
Chissà cosa deve frullare nella testa di chi dichiara con innocenza delirante che i troppi acquisti fanno male, dopo che, non più di quattro mesi fa, si lamentava dell’esiguità della rosa.
Sembra quasi che Conte, quello che conoscevamo e potevamo vedere riflesso nelle sue squadre in campo, sia stato sostituito da un döppelganger. Fatto di polistirolo e gomma, più che di acciaio; annacquato, senza mordente, più intenzionato a costruire una narrazione accomodante che a dare un obiettivo di ampio respiro.
E allora, l’avaria di dichiarazioni durante il ritiro, gli spunti sempre meno interessanti delle conferenze stampa, il continuo rimando, come un discepolo di Savonarola, all’infausto presagio di una stagione travagliata, sembrano quasi il frutto di una strategia, inconscia, di autosabotaggio.
Una sorta di cupio dissolvi, forse: o, volendo maliziare, la consapevolezza di riuscire a trarre il meglio da sé solo se messo in discussione. Solo con la necessità di un ribaltamento di campo, di un sovvertimento delle gerarchie, di un “dramma” dal quale rialzarsi.
L’espediente del decimo posto, ad esempio, lo scorso anno preservò una narrativa dell’impresa che forse era tale anche per questo, ma non soltanto (il dislivello con l’Inter non era di abitudine alla vittoria, ma di profondità e qualità della rosa).
Oggi, Conte, non ha nulla di negativo a cui aggrapparsi: ha una società dalla sua, i favori del pronostico, pure una certa benevolenza della stampa di settore. Allena una rosa che porta il sigillo delle sue iniziali su ogni scelta.
Insomma, è in quella che per tutti sarebbe la comfort-zone. E che per lui, invece, si rivela una gabbia.
I problemi di spogliatoio sono una voce di sottofondo: se le cose funzionano, gli spogliatoi sono fortini inespugnabili. Se qualcosa si inceppa, escono fuori tutti i malumori.
Certamente, l’avvio shock di questa stagione può rappresentare quel momento di rottura dal torpore. Il 6 – 2 (mi disturba il solo scriverlo) potrebbe essere il nuovo “decimo posto” cui aggrapparsi; le faccine di Lang, nuovo case law per educare le corde di uno spogliatoio in cui, ricordiamo, vive ancora il germe di due ammutinamenti.
Conte ha tutto per rialzare la testa. Expertise, competenza, carisma. Ma a una condizione: che sia lui a crederci, in prima persona. E che non lasci trascinarsi dagli eventi, come un passante che cammina ai margini di un incendio.






