Solidarietà a Sigfrido Ranucci.
È triste dirlo ma sembra che ormai siamo abituati, in Italia, a ritenere “normali” notizie che normali non sono affatto.
Ci riferiamo agli attacchi nei confronti di chi prova a fare giornalismo. L’ordigno piazzato sotto l’auto di Sigfrido Ranucci, volto e anima di Report, non è solo un vile atto intimidatorio ma rappresenta un altro colpo inferto alla libertà di stampa, alla democrazia, e a chi ancora crede che raccontare la realtà non debba costare la vita.
Pochi giorni fa abbiamo ricordato Giancarlo Siani, cronista del Mattino, nell’anniversario del suo omicidio. Tante parole meravigliose ma, a distanza di anni da quel tragico evento, lo scenario non sembra essere cambiato. Se tiri fuori notizie, sei un pericolo.
Siamo solidali con Ranucci, giornalista coraggioso, “scomodo”, libero. Ma questa solidarietà rituale, che arriva a colpi di comunicati e post sui social, rischia di diventare slogan. Serve indignazione vera, rabbia: non è tollerabile che un giornalista debba temere per la propria incolumità solo per aver raccontato dei fatti. Purtroppo è l’ennesima dimostrazione che qualcosa di profondo e marcio è radicato nel nostro Paese in maniera irreversibile. Un clima di tensione alimentato gravemente da chi finisce sotto i riflettori per le magagne combinate.
Chi cerca notizie nel nostro Paese spesso finisce nel mirino di delinquenti, minacciato, o ancor peggio isolato, non protetto. E tutto questo viene seguito da una bolla di momentanea condanna, utile per una campagna elettorale, meno per i professionisti dell’informazione.
Ormai gran parte del giornalismo è piegato, non punge il potere costituito, tace per convenienza o per paura. La colpa ricade su un sistema che non ha protetto a sufficienza chi racconta notizie, dagli editori alle istituzioni.
Il giornalismo, quello autentico, in Italia non sta morendo: è già morto. Non perché manchino i giornalisti bravi, ma perché chi osa, chi indaga, chi tocca i fili dell’intreccio tra politica, affari e criminalità, viene lasciato solo.
Sigfrido Ranucci non è solo un collega sotto attacco ma rappresenta il simbolo di una professione che cerca di risorgere. Difenderlo significa difendere tutti noi, il nostro diritto a conoscere e comprendere.
E allora questa volta non basta la solidarietà. Bisogna dire stop alla paura, alla rassegnazione. Se cercare la verità diventa un atto di eroismo, allora sì, il giornalismo è finito. Per contribuire alla sua rinascita, dobbiamo considerare la verità un valore e non un pericolo.






