Oramai non fanno più notizia le dichiarazioni inacidite di Luciano Spalletti. Come un meraviglioso disco rotto, ogni sosta di nazionale, Bald Sabbath ci racconta delle terribili sevizie subite a Napoli da parte di De Laurentiis.
Le invettive contro il tiranno sono divenute ormai un genere letterario. Tremende le vessazioni subite, terribili le sanzioni corporali, nauseabonde le malvagità. Il Sultano, che gli ha regalato un palcoscenico quando era fuori dal giro, reietto e con una fama di piantagrane, non merita altro se non bile. Distillata in interviste senza contraddittorio, diversivo ideale per coprire il fallimento in Nazionale, quello sì avvenuto con un presidente che lo ha scaricato dalla sera alla mattina.
Sì perché leggendo Spalletti pare che dal Napoli sia stato cacciato. E non che, nel pieno rispetto delle proprie facoltà, se ne sia andato in barba ad un contratto valido e vigente urbi et orbi.
Quel contratto, stilato in una sera di febbraio, nel suo appartamento milanese, che Spalletti dovrebbe incorniciare nel suo ufficio a City Life (non nella tenuta toscana che, da agosto 2023, ha perso quel fascino ascetico, movente innocente di un addio sbandierato per scelta di vita) come il cimelio che ti cambia la vita. Perché con quel contratto, con quel presidente e con quella squadra ha ricevuto il riconoscimento per una carriera eccezionale che mai prima di allora aveva conosciuto la gloria della vittoria.
Ma il Sultano, si sa, è il perfetto espediente per parlare d’altro. E con la sponda di una stampa sempre più ammansita, l’onere di allegare una prova, sia pure piccola, spicciola, fetente e maledetta, in due anni di interviste su tutti i palcoscenici del mondo, nessuno l’ha mai pretesa.
Ma un tale una volta mi disse che puoi essere bravo a dissimulare quanto vuoi, alla fine, un barlume di verità sprizza sempre fuori; e dal palco del festival dello sport Lucianone Spalletti, l’uomo che sussurrava ai cavalli e contemporaneamente trattava con Gravina, s’è tradito.
Alt. S’è tradito per quello che ha sempre detto. Ha tradito, se vogliamo, la sua weltanschauung, non la nostra di napoletani che, a dispetto di come ci dipingono, sappiamo da molti più secoli come funzionano affari e affetti.
Per me era diventato difficile perché il presidente aveva preso il sopravvento, non mi ha mai parlato di un rinnovo o di un qualsiasi regalo per far vedere che mi voleva bene.
Non c’era nessuna papera da accudire, nessun orto da concimare, men che meno rossi nobili da imbottigliare o olii da spillare. Per poter rimanere a Napoli, Luciano Spalletti, oltre alla gloria e alla certezza di una centralità che nessuno, fuori dal suo tormentato io, aveva mai pensato di mettere in discussione, voleva un regalino.
Per carità, pecunia non olet. Viva la sincerità, viva l’onestà. A Spalletti non è andata giù che De Laurentiis facesse il datore di lavoro e non il patron. E gliel’ha fatta pagare, covando per mesi un’inspiegabile rabbia culminata nell’addio edulcorato dal refrain dell’anno (poi divenuto un mesetto) sabbatico e poi dalla presenza, ci consentirà, gufesca, nei momenti duri successivi al suo addio.
Spalletti a Napoli lo volevamo tutti. Alla fine. All’inizio, in quel febbraio freddissimo del 21, lo voleva solo De Laurentiis (Giuntoli, all’epoca, spingeva per la conferma di Gattuso).
E se la riconoscenza, tanto sbandierata qua e là, ha ancora un senso, a reclamarla dovrebbe essere, tra i due, chi ne ha risollevato l’immagine consegnandolo alla storia. Una storia che, per quanto così impressa nell’immaginario collettivo, ha fatto passare in secondo piano il fallimento totale in nazionale, l’esonero e le polemiche per averci portato quasi fuori dal terzo mondiale consecutivo.
Soprattutto se, come sta emergendo, alla fine, Luciano, era solo questione di soldi…






